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Il Tribunale di Catanzaro ha ritenuto inefficaci alcune clausole contenute nelle condizioni generali che disciplinano il rapporto tra e-bay e i propri utenti. Trema il mondo dell’e-commerce italiano
E’ un provvedimento destinato a far discutere e che sta già facendo tremare il mondo dell’e-commerce italiano quello pronunciato nelle scorse settimane dal Tribunale di Catanzaro che ha ritenuto inefficaci talune clausole contenute nelle condizioni generali che disciplinano il rapporto tra e-bay ed i propri utenti.
“Con riguardo alle clausole vessatorie online, l’opinione dottrinale prevalente – alla quale il Tribunale aderisce – ritiene – scrivono i Giudici – che non sia sufficiente la sottoscrizione del testo contrattuale ma sia necessaria la specifica sottoscrizione delle singole clausole, che deve essere assolta con la firma digitale”.
“Dunque, nei contratti telematici a forma libera – continuano i magistrati – il contratto si perfeziona mediante il tasto negoziale virtuale, ma le clausole vessatorie saranno efficaci e vincolanti solo se specificamente approvate con la firma digitale”.
A leggere l’Ordinanza del Tribunale di Catanzaro, verrebbe da concludere che decine di migliaia di clausole, contenute in altrettante condizioni generali di contratto alle quali sono attualmente affidati i rapporti negoziali tra i gestori delle principali piattaforme di e-commerce [n.d.r. ma lo stesso principio investire e travolgerebbe anche i fornitori di servizi di comunicazione elettronica, i social network e gli user generated content] sono inefficaci e che, dunque, non potrebbero mai essere utilizzate “contro” gli utenti.
Bene così, potrebbe dire qualcuno, se si guardasse alla vicenda dal solo lato degli utenti – consumatori e professionisti -, “liberati”, d’un colpo, dal “giogo” negoziale di clausole, spesso, per loro sfavorevoli.
Il punto, però, è un altro.
A ragionare così si rischia di infliggere un duro colpo all’e-commerce italiano già sofferente di un ritardo che appare, a tratti, incolmabile rispetto al resto d’Europa.
In caso di contratti disciplinati da condizioni generali predisposte da una delle parti – stabilisce l’art. 1341 del codice civile – “non hanno effetto, se non sono specificamente approvate per iscritto, le condizioni che stabiliscono, a favore di colui che le ha predisposte, limitazioni di responsabilità, (1229), facoltà di recedere dal contratto(1373) o di sospenderne l’esecuzione, ovvero sanciscono a carico dell’altro contraente decadenze (2964 e seguenti), limitazioni alla facoltà di opporre eccezioni (1462), restrizioni alla libertà contrattuale nei rapporti coi terzi (1379, 2557, 2596), tacita proroga o rinnovazione del contratto, clausole compromissorie (Cod. Proc. Civ. 808) o deroghe (Cod. Proc. Civ. 6) alla competenza dell’autorità giudiziaria”.
Se la posizione dei Giudici del Tribunale di Catanzaro che, tuttavia, non convince dovesse diffondersi, il lento sviluppo del commercio elettronico – tanto quello B2C che quello B2B – in Italia subirebbe una gravissima battuta d’arresto.
Le condizioni generali che disciplinano i rapporti tra gestori ed utenti delle più diffuse piattaforme online sono, infatti, pieni di clausole che rientrano nell’ambito di applicazione dell’art. 1341 c.c. e ben difficilmente i gestori di tali piattaforme sarebbero in grado di rinunciarvi continuando ad erogare i relativi servizi e/o vendere i propri prodotti nel nostro Paese senza poter fare affidamento sulle garanzie loro derivanti proprio da tali clausole.
C’è, quindi, ben poco da stare allegri.
L’impressione, a leggere l’Ordinanza del Tribunale di Catanzaro è, tuttavia, che i Giudici abbiano preso una cantonata o, almeno, abbiano letto poco e male il codice dell’amministrazione digitale.
Val la pena, in tale contesto, di ricordare alcuni passaggi degli artt. 20 e 21 del Codice dell’Amministrazione digitale.
Il comma 1bis dell’art. 20 del CAD, stabilisce che “L’idoneità del documento informatico a soddisfare il requisito della forma scritta e il suo valore probatorio sono liberamente valutabili in giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità ed immodificabilità, fermo restando quanto disposto dall’ articolo 21” che, al comma uno, prevede che “Il documento informatico, cui è apposta una firma elettronica, sul piano probatorio è liberamente valutabile in giudizio, tenuto conto delle sue caratteristiche oggettive di qualità, sicurezza, integrità e immodificabilità” e, al comma 2 precisa che “Il documento informatico sottoscritto con firma elettronica avanzata, qualificata o digitale … ha l’efficacia prevista dall’articolo 2702 del codice civile”.
Il codice dell’amministrazione digitale – applicabile a dispetto del nome anche ai rapporti tra privati – stabilisce, dunque, che anche il documento informatico non firmato o firmato con una semplice “firma elettronica” può soddisfare il requisito della forma scritta mentre soddisfa sempre tale requisito laddove sia firmato con una firma elettronica avanzata o con un firma elettronica qualificata o digitale.
Non è dunque – contrariamente a quanto mostrano di ritenere i giudici di Catanzaro – la sola firma digitale ad essere in grado di garantire la forma scritta ad un contratto o la sua “approvazione per iscritto”.
Sembra poi opportuno aggiungere che l’art. 1341, pur prevedendo ai fini dell’efficacia di talune clausole l’esigenza di una specifica approvazione per iscritto non stabilisce che essa debba necessariamente avvenire – secondo lo schema poi diffusosi nella prassi negoziale “su carta” – attraverso una sottoscrizione specifica per ogni clausola vessatoria o per un intero gruppo di clausole.
In questa prospettiva, la conclusione cui sono pervenuti i Giudici di Catanzaro sembra figlia di una “cattiva traduzione” dal linguaggio analogico a quello digitale anziché il risultato di un processo di applicazione nel mondo dei bit della ratio di una norma nata – complice l’anagrafe – per governare fenomeni propri del mondo degli atomi.
Un flag e, a voler star tranquilli, una firma elettronica semplice o – qualora l’importanza del contratto lo giustifichi – una firma elettronica avanzata, dunque, appaiono dover esser considerati sufficienti a garantire l’efficacia delle clausole vessatorie nei contratti del commercio elettronico.
Ciò che conta, infatti, sembra dover essere la circostanza che venga documentata per iscritto – in uno qualsiasi dei modi in cui tale risultato è ottenibile alla stregua di quanto previsto dal Codice dell’amministrazione digitale – che la parte che non ha predisposto le condizioni generali, abbia, specificamente approvato le clausole vessatorie, scegliendo, conseguentemente ed in modo consapevole di aderire alla disciplina negoziale dell’accordo.
Tutto, in altre parole, sembra destinato a tradursi in una questione di valutazione di efficacia probatoria complessiva della documentazione contrattuale, senza che sia, tuttavia possibile – come invece pretenderebbero i Giudici del Tribunale di Catanzaro – di trasformare tutti i contratti per adesione del commercio elettronico da contratti a “forma libera” in contratti a “forma vincolata” o, peggio ancora, se si consente il gioco di parole in contratti necessariamente a “firma digitale”.
Occorre, tuttavia, rilevare che se i Giudici del Tribunale di Catanzaro sono caduti nell’equivoco all’origine della decisione, altri potrebbero cadervi in futuro.
Considerato, pertanto, che il Governo sta per “dare alle stampe” l’atteso Decreto Digitalia, sarebbe opportuno che si cogliesse l’occasione per dissipare, una volta per tutte, ogni dubbio: l’Italia è già indietro nella rivoluzione digitale e rallentarne ulteriormente la corsa richiedendo una firma digitale per acquistare online un software o un file musicale, sembra davvero un rischio da scongiurare.
[fonte: https://www.leggioggi.it]